Benedetta era una piccola orfana di otto anni, che si trovava all'orfanotrofio da quando era nata. Era una bimba molto malata e per questo amava starsene da sola in un angolo tranquillo del giardino, lontana dagli schiamazzi degli altri piccoli ospiti dell'edificio.
La ragazzina stava osservando con un pizzico di invidia le corse e i giochi scalmanati dei compagni, liberi di correre a perdifiato mentre, lei, era costretta a rimanere seduta o al limite fare brevi passeggiate. Ripensò ai suoi sogni ormai irrealizzabili a causa della sua malattia e si perse nel fantasticare una vita normale, come quella di tutti gli altri bambini della sua età.
Un improvviso fruscio attrasse la sua attenzione e Benedetta trasalì dalla sorpresa. Era stato come un sussurro, ma poi pensò che fosse il lieve stormire delle
fronde carezzate dal vento.
Fino a
qualche istante prima era prigioniera della sua malinconia e, nel silenzio, si
era persa nel sognare ad occhi aperti. O forse stava solo dormendo e quel che le era
parso sospiro e un bisbiglio appena percepiti, facevano parte di quel sogno? Probabilmente
era così!
Benedetta
chiuse gli occhi offrendo il volto alla carezza della tiepida brezza
primaverile. Per qualche magico istante il resto del mondo tornò a fermarsi e, a
lei così piccola, parve di esserlo ancor di più rannicchiata alle radici della
gigantesca quercia, che ombreggiava il giardino dell’orfanotrofio.
Il
pensiero di essere sola al mondo le
provocò l’ennesima morsa alla bocca dello stomaco e la malinconia offuscò ancor
di più il suo bel visetto.
D'altronde,
quella gelida sensazione non era nuova e Benedetta era abituata
alla tristezza. Il suo travaglio interiore era iniziato da piccolissima,
proprio quando si era resa conto di non avere né una mamma né un papà. Era
stato allora che in modo graduale si era chiusa in se stessa, escludendo tutti
coloro che facevano parte della sua vita.
Le
suore che accudivano gli orfanelli erano buone e si occupavano con
sollecitudine del benessere dei piccoli ospiti dell’istituto, ma erano poco portate alla tenerezza di cui è bisognoso ogni
bambino di questo mondo.
Erano
state le suore a imporle il suo nome il giorno che l’avevano trovata. Qualcuno aveva riposto la neonata in una cesta abbandonandola poi all'esterno dell'orfanotrofio.
Benedetta,
perché?
si chiese lei. Non c’era nulla di più drammatico di un abbandono per un neonato
e forse un altro nome sarebbe stato più appropriato.
Le
suore non le avevano mai nascosto nulla e lei era stata sempre consapevole di
essere stata rifiutata dai genitori. Per questo motivo e anche per il fatto
d’aver saputo della sua malattia, pensava a se stessa paragonandosi a un cane
randagio.
Le
era sempre mancato l’affetto, la comprensione, ma soprattutto le coccole di una
mamma. Quella tenerezza di cui tanto si narrava nei libri e che lei poteva
soltanto immaginare. Quanto calore potevano offrire le braccia di una mamma? Quanta
consolazione? Benedetta non lo sapeva e, forse, non l’avrebbe mai saputo.
Era
così grande il suo dispiacere che in quel momento venne fuori e,
inconsapevolmente, la portò a sospirare.
Subito
dopo il suo sospiro si tramutò in un lamento che la piccola tentò di soffocare
per non finire a singhiozzare. Era una bimba orgogliosa e mai e poi mai avrebbe
mostrato le sue lacrime ai compagni che giocavano poco distante. Poi, la tosse
che la tormentava da qualche tempo, prese il sopravvento e Benedetta si sentì
soffocare.
Le
lacrime trattenute a stento le colarono giù dalle guance mentre tentava di
riprendere fiato.
Quando
la crisi passò, emise un lungo, accorato sospiro e in quel momento, ne
fece subito eco un altro accompagnato da un lieve, quasi impercettibile
palpito.
Benedetta
tese i sensi nel tentativo di percepire qualche altro suono e ancora una volta avvertì
quasi un bisbiglio alle sue spalle.
Allora
si volse decisa a scoprire da dove provenisse, ma soprattutto, chi fosse a
provocarlo.
Tuttavia, alle sue spalle c'era soltanto il tronco della quercia, così concluse si fosse trattato
del vento.
Guardando in alto, tra le fronde, vide che le foglie della quercia si
muovevano, quasi danzavano, provocando quel lieve fruscio avvertito poc'anzi.
La bimba sorrise: quella danza aggraziata, quel leggero sussultare, le piacevano,
l’attiravano. Così rimase incatenata con lo sguardo verso l’alto per qualche
lungo istante.
Lassù,
tra i rami, s’intravvedevano squarci d’azzurro intenso e qualche buffa e candida
nuvola che si rincorreva con le altre. Com'era bello il cielo quel giorno e, le
rondini che scorrazzavano all'impazzata, contribuivano a renderlo gioioso.
Ma
non era la stessa cosa per il suo cuore e la piccola distolse lo sguardo di
nuovo umido di pianto.
Perché
le riusciva così facile commuoversi? Perché era così sensibile da non riuscire
a trattenere le lacrime, si domandò con un moto di stizza.
“Benedetta!”
Quella
voce melodiosa era reale, non se l’era sognata. Qualcuno la stava chiamando.
Forse una suora?
Benedetta
scrutò i dintorni, ma i suoi compagni erano sempre intenti nei loro giochi e,
le due suore che li accudivano, erano a loro volta intente a chiacchierare.
Si
era sbagliata? Ma sì! Doveva essere così perché quella era davvero una strana
giornata e a quel punto la ragazzina aveva anche perso la voglia di stare lì a
rimuginare da sola.
Si
sarebbe alzata e avrebbe chiesto il permesso di ritirarsi nel dormitorio per
tornare a studiare.
Un
altro sospiro e un altro bisbiglio più deciso:
“Non andare, ti
prego! Tienimi ancora compagnia! Sono sempre così sola!”
Benedetta
sussultò impaurita. Questa volta non si era sbagliata: qualcuno, che probabilmente
si teneva nascosto nei pressi, aveva parlato. Qualcuno che si stava divertendo
a spaventarla. Era quasi certa che si trattasse di qualche suo compagno. Non
era la prima volta che quelli più grandi prendevano di mira i più piccoli.
Dal
punto in cui si trovava squadrò a uno a uno gli altri ospiti dell’orfanotrofio,
sia i maschi che le femmine. Non sembrava che mancasse qualcuno. E allora, quella
voce femminile da dove proveniva?
“Benedetta, piccola
cara, non avere paura e non cercare altrove: sono qui, proprio accanto a te ed è
il mio cuore che ti sta parlando.”
In
quel momento la bambina si sentì sfiorare e la sensazione non fu per nulla
sgradevole bensì piacevole come una carezza.
Benedetta
s’immobilizzò. E anche se non trovava il coraggio di voltarsi, quella voce
unita a quel fruscio, ma soprattutto quel lieve sfioramento, non le suggerivano
affatto sensazioni di pericolo. Si sentiva stranamente al sicuro, oltre a
essere molto, ma molto incuriosita. Cosa stava per accadere?
Le
era parso che quella voce e quella carezza provenissero dall'albero. Era forse
impazzita? O era davvero immersa in un bel sogno?
“No, non stai
sognando, piccola cara. Sono proprio io, quella che voi umani chiamate quercia,
a parlare. Anzi, no, ad essere precisi è la mia essenza a comunicare con te e
il tuo cuore e la tua mente percepiscono la mia voce.”
Benedetta
balzò in piedi arretrando di un passo. L’istinto le suggeriva di scappare via, il
più velocemente possibile, ma qualcosa di misterioso sembrava incatenarla sul
posto. Forse era solo la voglia di sapere e questa volta si volse, squadrando
con coraggio il tronco nodoso e gigantesco dell’albero.
“Non aver paura!
Non sono una creatura malvagia.” le sussurrò l’albero per rassicurarla.
Poi,
davanti allo sguardo stralunato della bimba e, in modo lento e graduale, la
corteccia ricca di nodi si trasformò e, seppure appena accennati, apparvero due
occhi, un naso e una bocca, tra l’altro sorridente. La folta chioma della
quercia faceva da capigliatura, i rami fungevano da braccia, le radici
sembravano gli arti inferiori. Tutto sommato un volto buffo e un’espressione
simpatica, che non avrebbero mai potuto incutere paura.
La
bambina, non sentendosi affatto in pericolo, si rilassò e non pensò più a
fuggire lontano. Che strana creatura era quella che ora aveva di fronte?
“Brava piccina. Sei
molto coraggiosa e comunque vicina a me non devi sentirti in pericolo. Sono qui
per proteggerti e consolarti, non per farti del male.”
«Ma
tu chi sei? Non avevo mai sentito un albero parlare e nemmeno credevo che fosse
possibile. Sembra quasi che tu…sia viva!»
“Ah ah…mi fai
sorridere. Quanto sei ingenua, piccola mia. Io sono viva! Sono un essere
vivente, proprio come te, anche se, devo ammettere che abbiamo forme diverse.”
La
quercia fece una breve pausa, in modo che la bambina assimilasse quello
straordinario concetto. Poi riprese: “Cara,
tutto questo ti sembrerà strano, eppure ci sono tante cose a questo mondo che
sono possibili e di cui ignori l’esistenza. Tuttavia, se lo vorrai, sono
disposta a insegnarti, a farti conoscere molte delle cose che ancora non conosci.”
La
bimba mise il broncio: «Non so chi sei e nemmeno se sei vera o se si tratta
solo di un sogno. Come posso fidarmi di te?»
“Hai ragione! Sono proprio sbadata. Non mi
sono ancora presentata. Ma sai io sono vecchia. Ormai ho passato il secolo di
vita e tu devi perdonarmi. Il mio nome è…”
La
quercia tacque. Il suo buffo volto parve sconcertato. Benedetta sorrise tra sé: quell'albero la faceva divertire e poi in quel momento pareva proprio una
persona pensierosa. “Tu sorridi perché ti
pare strano, non è vero? Ma lo sai che non lo so come mi chiamo? A pensarci
bene, nessuno ha mai pensato di darmi un nome e di conseguenza a chiamarmi con
quello. Uhm…facciamo un gioco…che ne diresti di propormene uno tu?”
Questa
volta Benedetta si lasciò andare in una risata spontanea. Quel suono argentino
indusse al sorriso anche la quercia: “Sono
contenta che tutto questo ti diverta. Ma ora, visto che mi hai messo questa
pulce nell'orecchio…” e, quasi per sottolineare quanto detto, l’albero
scosse le foglie ai lati della testa, come se avesse avuto veramente le
orecchie e provocando un’altra, sonora risata della bambina.
“Ebbene,
signorinella, invece di ridere, vorresti aiutarmi a risolvere il problema? Ma
mi raccomando: che sia un bel nome, importante e significativo!”
Benedetta
ci pensò su un attimo:
«Però
prima devi dirmi se sei maschio o femmina.»
L’albero
sembrò risentirsi, ma poi sorrise: “Se
non fossi stata tu a porre il quesito avrei potuto offendermi. Ma, comunque,
trovo la domanda pertinente e ti rispondo. Non è affatto semplice come per voi
umani, ma io sento di appartenere al genere femminile, quindi, dovrai trovarmi
un nome che mi si confaccia.”
Il
viso della bimba, in un attimo si fece pensieroso. Non riusciva ancora a capire
le emozioni né tanto meno i concetti espressi da quella strana creatura, ma trovava
divertente il gioco del nome e questo bastava. Incrociò le mani sul petto e con
una mano si grattò il mento assumendo così una posa concentrata.
“Ecco, brava,
così, concentrati bene!” le suggerì la quercia, poi rimase in attesa.
«Ho
trovato: che ne dici di Samarcanda?»
Il
volto rugoso dell’albero si contrasse con disappunto: “No, no! Non ci siamo per niente! Ma sono certa che se ti sforzi puoi
fare di meglio!”
«Bellabea?»
“Uhm, di la
verità…te lo sei inventato? E comunque, no! Siamo molto lontani!”
Benedetta
alzò gli occhi al cielo: quel compito, presentato come un gioco, si stava
prospettando difficile. Lassù, tra le fronde dell’albero intravedeva squarci di
cielo azzurro e, l’intricato intreccio dei rami, sembravano formare un ricamo. "Sembra
un ricamo arabescato", pensò ammirata e quello spettacolo le ispirò un’idea
improvvisa: «Ti piacerebbe Arabesque?»
“Arabesque?” rispose, quasi
dubbiosa la quercia. “Oh, ma oui! Est
tres jolie! Carino! francese…quasi esotico, direi. Suona bene! Arabesque…mi
piace. Sì, decisamente, mi piace e credo che mi si addica! Sei stata brava!
Complimenti! Ora anche io ho un bel nome!”
Benedetta
sospirò felice di essere riuscita in così poco tempo ad accontentare la
quercia, che tra l’altro le sembrava molto vanitosa.
“Sono talmente
soddisfatta che ti vorrei ripagare. Ti andrebbe se ti raccontassi una favola?”
«A
me piacciono molto le favole e finora non ho avuto nessuno che me le
raccontassi.»
Nel
dirlo il viso della bimba si rattristò mentre veniva travolta da una nuova
crisi di tosse. La quercia ebbe un moto di compassione e quando Benedetta smise
di tossire le disse:
“Calmati bambina e
vieni da me. Accoccolati qui vicino al mio tronco.”
Lei
ubbidì e si accucciò sulle radici. In quei pochi istanti era diventata di nuovo
malinconica e le fronde più basse della quercia si abbassarono avvolgendone il
corpo in un abbraccio.
“Non era affatto
mia intenzione rattristarti, piccola mia. Ma ora, se mi ascolti, vedrai, questa
storia ti piacerà.”
Benedetta
confortata dal fare materno dell’albero annuì e, mettendosi comoda, si apprestò
ad ascoltare.
«Devi sapere,
bambina, che ho visto trascorrere stagioni dopo stagioni. Quante, non saprei
nemmeno dirlo con certezza. So che la
memoria del tempo trascorso, mi è stata trasmessa da querce e alberi molto più
vecchi di me. Vuoi sapere come comunichiamo tra noi anche se ci troviamo a
centinaia di chilometri distanti l’uno dall'altro? Ebbene, noi sussurriamo al
vento le nostre parole e il vento gentilmente le trasporta con sé fino a
bisbigliarlo lui stesso al destinatario. Comodo vero, piccola? E questa storia inizia proprio dagli albori del
tempo, quando ancora non esistevano né i mari né i monti, non esisteva l’uomo e
nemmeno le piante e, l’oscurità, era la padrona assoluta di questo pianeta.
Allora la Terra galleggiava nell'atmosfera come una bolla di sapone e sembrava
vagare senza meta nello spazio. Poi, all'improvviso, in un lampo di luce si
formarono gli oceani, apparvero le montagne e comparvero le prime forme di
vita. Compreso gli alberi. Proprio allora inizia la testimonianza dei miei
antenati. Nel cielo comparvero il sole e la luna, quindi le prime stelle. Ma
diciamo che le stelline neonate erano un po’ birichine e non si disponevano in
cielo con ordine come fanno adesso, ma ognuna occupava il posto che più le
aggradava o quello che riusciva a occupare per prima.
Il sole e la luna
facevano un po’ da papà e mamma alle stelline e tentavano in tutti i modi di
mettere ordine in quel caos. Le stelline facevano i capricci: si spintonavano,
bisticciavano, si facevano dispetti. Così, quasi ogni giorno, vi era una stella
che, perso l’equilibrio in seguito a una spinta, precipitava e si schiantava
sulla terra. I genitori adottivi erano proprio disperati sia per gli indisciplinati
che per la dannosa perdita subita dall'universo.
Vi erano tre o quattro
stelle che, in modo particolare, davano più pensieri e problemi agli astri più
grandi. I loro nomi erano Antares, Sirio, Andromeda e Cassiopea.
Ebbene, queste
quattro, erano molto amiche e giocavano tutti i giorni insieme, a volte a
nascondino, a volte a rincorrersi. Altre volte, invece, acchiappavano il primo
meteorite che transitava a tutta velocità e giocavano o al calcio o a pallavolo.
Ma nel bel mezzo del gioco iniziavano le discussioni e finivano a litigare.
Un brutto giorno
accadde che le quattro vennero alle mani o meglio: alle punte. Calci, pugni e
graffi a non finire.
Andromeda, forse
perché più piccola delle altre, venne presa di mira e finì per essere lei la
vittima principale del gruppetto.
Antares e Sirio,
in modo particolare si accanirono contro la piccola stella tempestandola di
calci, talmente potenti, da scaraventarla sempre più lontana dal luogo del
litigio. Fino a quando un calcio più poderoso degli altri, assestato da
Antares, scagliò Andromeda a migliaia di chilometri di distanza, dove purtroppo
galleggiava un colossale buco nero, considerato dagli astri e dai pianeti della
galassia, un orribile mostro mangiatore di stelle.
Difatti, appena il
corpo della povera stellina fu abbastanza vicino, la massa gassosa del mostro
si espanse talmente da risucchiare la piccola Andromeda. E dopo nemmeno un
secondo, la stella scomparve all'interno di quella bocca orripilante.
Solo in quel
momento la lite terminò. E fu quando le tre stelle si accorsero del grave errore
commesso e delle infauste conseguenze derivate dal loro comportamento.
I tre giovani
astri rimasero basiti, come paralizzati dal terrore. Avevano causato la perdita
di una loro consorella e questo di per sé era già un fatto grave considerato
che a quei tempi le stelle non erano numerose come ora. Ma il fatto più grave
era che Andromeda, essendo precipitata nell'abisso sconosciuto di un buco nero,
era persa per sempre. Le tre non avrebbero più rivisto la loro piccola amica così
risplendente di luce fino a qualche istante prima. Quella luce si era spenta e
non si sarebbe più riaccesa. Ora, oltre il rimorso per quanto avevano
combinato, che castigo le attendeva?
Le stelline, con
aria colpevole, si volsero verso il sole e la luna. Nessuno dei due grandi
astri aveva fatto in tempo a intervenire per evitare la tragedia e, in quel
momento, dispiaciuti per l’accaduto, osservavano con aria accusatrice le piccole
pesti, senza peraltro sapere come agire.
Per fortuna
passava da lì Polaris, anche detta la stella polare o stella del nord. Polaris,
aveva assistito, seppure da lontano, sia alla disputa che alla disgrazia.
Senza nemmeno
profferire una parola, si gettò a capofitto nel buco nero scomparendo alla
vista. Passarono minuti di attesa angosciosa.
I buchi neri
ancora oggi sono considerati abissi sconosciuti e inesplorati. Cosa ne sarebbe
stato delle due stelle ingoiate da quel mostro alieno?
Poi, quando ormai
le speranze stavano per morire, ecco riapparire la grande stella che portava
con sé, trascinandola per una delle cinque punte, la stellina minore.
Oh, che sollievo
provarono le malandrine! La loro amica Andromeda sembrava stesse bene, seppure
un po’ provata dalla brutta esperienza.
Le tre corsero
incontro alla stella polare che non esitò un attimo a redarguirle:
«Spero soltanto
che vi serva da lezione, signorine. Questa volta l’incidente si è risolto bene,
ma non sfidate mai più la sorte, potrebbe davvero rivoltarvisi contro.
Credetemi: non è questo il modo di vivere e dovete imparare a farlo. Avete la
fortuna di condividere i primi anni della vostra esistenza. Sfruttateli,
condividendo i giochi senza litigare e senza gelosia. Imparate a stare insieme,
condividete le vostre esperienze e, crescendo, imparate il rispetto e la
solidarietà reciproca. Insomma, siate davvero quelle amiche che finora non
siete state. Vogliatevi bene! Solo così, potendo contare una sull'altra, potreste
aspirare a una vita migliore.»
Sotto lo sguardo
severo della stella polare, le quattro amiche avevano assunto un atteggiamento
contrito, ma appena conclusa la ramanzina, le stelline si scambiarono
un’occhiata e all'improvviso finirono abbracciate e in lacrime.
Il sole e la luna
e tutti gli altri pianeti presenti tirarono un sospiro di sollievo. Si era
risolto tutto per il meglio e le stelline erano tornate di nuovo amiche. Ma
adesso era davvero arrivato il momento di prendere una decisione definitiva.
Il sole, con
cipiglio serio, chiamò le quattro stelle birichine davanti a sé e iniziò a dare
ordini:
«Non infierirò su
queste quattro monelle perché sono convinto che le parole di Polaris, abbiano
ottenuto l’effetto che s’intendeva. Ora, per evitare che accadano altre tragedie,
occorre che si rimetta ordine nel caos provocato dall’indisciplina di queste
signorine. Per cui, tutti voi qua presenti, farete esattamente quello che vi
dirò. A ognuno di voi, o singolarmente, o a gruppetti, verrà assegnato un punto
preciso nel firmamento e ognuno avrà l’obbligo di non abbandonare mai la sua
posizione. Pena l’esilio verso un’altra galassia e il divieto assoluto di
ritorno. Se qualcuno non è d’accordo che lo dica subito e potrà andarsene dove
meglio crede, purché lontano da qui. Tutti gli altri, si mettano in fila per
avere l’assegnazione del posto. Per le preferenze verranno rispettate
l’anzianità e la saggezza dimostrata. Inoltre, le più piccole a cui verrà
affidato un compito preciso, dovranno sempre ubbidire agli adulti. Questo è
quanto ho deciso.»
Tra i gruppetti di
stelle e di pianeti ci furono mormorii e alcuni borbottii. Ma poi, pian piano
gli animi si acquietarono e tutti ebbero la loro destinazione. Alle stelle più
giovani venne affidato l’incarico di brillare per i nuovi nati del pianeta.
Ognuna doveva farsi carico di un bimbo, seguirlo, proteggerlo, insomma portare
fortuna, ed essere dedicata a quello per tutta la durata della sua vita.
Alle stelline
piacque l’idea e in men che non si dica si sistemarono tutte quante al posto
assegnatole dal sole.
Nacquero così le
costellazioni che conosciamo. La stella polare si trovò alla guida dell’Orsa minore
ed è sempre stata la stella a cui fanno riferimento i navigatori e i
viaggiatori. Poi, vorrei anche citare l’orsa maggiore e la Croce del sud,
nonché le varie costellazioni dello zodiaco. E da allora, noi possiamo ammirare
il firmamento così com’è.»
La
favola era terminata e seguì qualche istante di silenzio. Arabesque osservò con
piacere il visino assorto e incantato della bambina.
“Allora, Benedetta,
pare proprio che ti sia piaciuta la favola.”
La
bambina si riscosse. Riaprì gli occhi che aveva tenuti chiusi, lasciandosi
cullare dalla voce armoniosa della quercia e, con il suggestivo contenuto del
racconto, aveva sognato di essere lei stessa una delle stelline nominate.
Intorno
era già calata l’oscurità e guardando in alto, Benedetta vide il cielo
stellato.
«Mi
è piaciuta talmente, che mi sono immedesimata. È una storia bellissima! E
quanto sono belle le stelle stasera!»
“Le stelle sono
sempre belle, piccina. E ora sai che esiste una stella per ogni bambino del
pianeta e che brilla solo per quel bimbo.”
«Dici
davvero, Arabesque? Ma allora lassù c’è una stella soltanto mia?»
“Certo, mia
piccola cara e adesso te la mostro. Guarda il mio ramo. Vedi dove punta? Là
troviamo la costellazione del Leone e proprio vicino c’è la Chioma di Berenice.
La sua stella più brillante si chiama Diadema. Quella è la tua stella,
Benedetta.”
La
bimba rimase incantata, senza parole. La stella indicata brillava intermittente
e sembrava quasi che le facesse l’occhiolino.
«Vorrei
tanto volare lassù e diventare una stella anche io. Vorrei brillare per un
bimbo triste e infelice e donargli la luce di cui avrebbe tanto bisogno, per
tutta la sua vita.»
La
quercia le sorrise accarezzandole i capelli: “Non mi sarebbe impossibile accontentarti, Benedetta. Ma tu devi essere
proprio sicura di quel che dici. Vuoi davvero abbandonare questo mondo? I tuoi
amici? Le persone alle quali sei più affezionata?”
Benedetta
ci pensò un attimo prima di rispondere, ma poi, affermò in tono deciso: «Niente
e nessuno mi lega a questa terra. I miei
mi hanno rifiutata abbandonandomi al mio destino appena nata. Tu sai che sono
molto malata e temo che il mio tempo ormai stia per terminare. Sento che sto
per morire Arabesque. Ma dimmi, esiste una morte migliore di quella di finire
in una stella? Io credo di no! Il pensiero del bene che potrei fare a un altro
bambino e della fortuna che potrei portargli, mi rallegra e mi spinge a
rispondere di sì alla tua domanda. Desidero fortemente diventare una stella e
se davvero fosse in tuo potere, ti prego Arabesque: esaudisci questo mio ultimo
desiderio!»
Il
tono della bimba si era fatto sottilissimo. Il suo fu quasi un sussurro. Allora
la quercia comprese che non c’era più tempo. Non doveva esitare!
Pose
un’ultima carezza sul volto della piccola, emaciato a tal punto da sembrare
diafano, trasparente, poi, con le fronde più soffici, le baciò lievemente gli
occhi socchiusi.
“Allora vai,
piccola Benedetta. Vola lassù e diventa una stella. E che la tua sia la luce
più splendente di quella costellazione. Da ora in poi il tuo nome sarà Diadema.”
Un
lampo inondò il giardino in cui si trovavano e sia l’albero che la bambina
scomparvero nell'alone.
Quando
tutto tornò alla normalità il corpo della bimba era sparito e la quercia era
tornata immobile come solo un albero normale poteva esserlo.
In
compenso in cielo apparve una stella ancor più luminosa e visibile sia di Sirio
che di Polaris e mentre un bimbo veniva al mondo, Diadema, ormai felice, iniziò
a pulsare intermittente, esclusivamente per lui.
Tanta fantasia e significato, nei tuoi briosi racconti, da non perdere.....
RispondiEliminaSereno giorno carissima e un abbraccio,silvia
Commuovente e tenera.Un tuffo nel mondo dell,astronomia e un pizzico di realtà.Tutto ciò in questa bellissima favola.Complimenti Vivì.Lu.
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